Solitudine

Solitudine

CHILDREN IN THE SHADOW 04

In questi giorni arriva dai massimi esponenti della salute pubblica degli Stati Uniti e quindi di riflesso del mondo occidentale, il segnale d’allarme sull’“epidemia di solitudine” che sta investendo il mondo. L’essere umano, ci dicono questi massimi esperti, si sente sempre più solo e sempre più isolato. Gli esiti di questa epidemia al confine tra mente e corpo sono così elencati: insonnia, alterazioni immunitarie, patologie cardiache, alimentari, algiche e ovviamente ansia, depressione, dipendenze da alcol e sostanze.

Guardando a questo elenco e all’incidenza che tali patologie hanno tra coloro che ci sono prossimi possiamo ben dire che effettivamente siamo nel bel mezzo di un’epidemia di solitudine. E, così come il COVID, anche questa epidemia non guarda in faccia né nelle tasche di nessuno, colpisce in forma indiscriminata senza tener conto del reddito che si possiede. Come ogni epidemia anche quella di solitudine ha un suo tasso di contagio che in questo caso è molto alto.

La solitudine genera solitudine, propaga solitudine, innesca processi di isolamento e di chiusura. Tra tutti gli aspetti che la solitudine porta con sé vorrei sottolinearne uno che ben si inserisce in questa piccola ed insignificante rubrica di pensieri volanti e volatili: la solitudine che nasce dal senso di abbandono. Si tratta di una solitudine mortifera, che uccide l’anima, la mente e quindi il corpo.

Camminando su questi marciapiedi che considero un po’ una seconda casa e anche un luogo di rifugio dai miei egoismi, mi incontro spesso con questa forma di solitudine. Volti e sguardi che prima che di pane hanno fame di attenzione, di considerazione, di bene-volenza. Ti guardano e si aspettano che tu in una certa maniera li riconosca, li tolga da quell’anonimato che li rende ombre che nessuno considera, di cui nessuno si accorge. La povertà non interessa a nessuno e a nessuno interessano i poveri. Li si incrocia per strada e li si lascia a se stessi, li si abbandona, li si riduce ad involucri stropicciati da scansare, da evitare o da gettare giù dal marciapiede nelle pozzanghere fangose.

Chiamare per nome una persona la cui povertà consiste nel dipendere dalla carità altrui, nel non riuscire ad integrarsi in quella che noi chiamiamo normalità o nel non riuscire a far parte in qualche modo di quello che noi chiamiamo processo produttivo, chiamarlo per nome significa riconoscergli una individualità e portarcelo a fianco, rendercelo simile. Chinarci su di lui, andare al suo livello non dà dignità a lui ce la dà a noi.

Connetterci con il povero e riconoscere in questo modo la nostra stessa povertà, ci permette di uscire dalla solitudine che uccide. Non essere tra coloro che abbandonano gli altri a se stessi, ai loro problemi, ci permette di non sentirci abbandonati. Il bambino che abbiamo incontrato l’altra sera seduto appoggiato al muro, di fronte al cassonetto dell’immondizia con gli occhi sbarrati di un uccellino caduto dal nido prematuramente, che pronunciava il suo nome con una voce esilissima intrisa di paura, era il volto stesso di chi è stato abbandonato alla sua solitudine. I pantaloncini corti, la magliettina di cotone, un paio di ciabattine e tutto questo per affrontare una fredda nottata. Qui l’abbandono non è più solo solitudine è anche e forse soprattutto violenza, e della peggiore.

Non solo non conosciamo il nome di quel bimbo, ma neppure lo vogliamo conoscere, non cerchiamo di connetterci con lui, lo abbandoniamo là nella notte senza curarci da quali fantasmi i suoi sogni verranno abitati. Forse è in quello sguardo sperduto la radice della nostra epidemia di solitudine, forse è in quell’abbandonarlo nella notte che trova origine il senso di abbandono che invade le nostre giornate e le rende miseramente e colpevolmente vuote.