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Farsi carico della vita di chi soffre

Ma forse una paura ce l’hanno: quella di essere lasciati soli. Anche in loro abita una nostalgia di qualcosa di indeterminato che gli manca, che si traduce nella paura di essere lasciati soli, abbandonati o meglio nella paura di prendere coscienza di essere stati abbandonati, di essere stati lasciati a se stessi, che non c’è nessun abbraccio ad accoglierli alla fine della strada. Una paura questa dietro la quale si intravede il desiderio e il bisogno di protezione, di incoraggiamento, di sentire che qualcuno fa il tifo per te, di essere rassicurati riguardo a quello che può accadere.

Li guardi e intravedi un paradosso: spesso sono bugiardi, ma il loro mentire manifesta tutta intera la loro verità. Mentono perché hanno fame, dicono una bugia per celare un loro desiderio inconfessabile, ti raccontano una storia perché temono di essere rifiutati, allontanati, abbandonati. E tramite le loro bugie si rendono così trasparenti e in fondo così veri da risultare luminosi. La loro bugia manifesta paradossalmente la loro innocenza. Un verso di un poeta inventati ben si adatta all’esperienza che vivo con loro: “Ascolto i volti perché non sanno tacere/ ciò che nascondono” (A. D’Avenia).

Il ragazzino si avvicina. Non dice nulla. Aspetta che sia tu ad accorgetene e a chiedergli che cosa gli è successo. Ha un occhio gonfio e ferito. Gli chiedo se ha litigato con qualcuno. Mi risponde a bassa voce che la polizia lo ha preso e lo ha gettato con forza sul pavimento e poi lo ha spinto via fuori dal palazzetto dello sport dove si trovava. Ho fatto la pizza oggi. Lo invito a venire a mangiarne un pezzo cercando di suscitare un sorriso. Ma più che il dolore è l’umiliazione e la rabbia impotente che gli fanno stringere le labbra. Mangia la pizza e poi se ne va a testa bassa.

Si potrebbero definire come giocatori di una squadra che affronta sempre avversari più forti. Ma sempre in campo, mai in panchina. Pronti a perdere, ma giocando sempre fino all’ultimo respiro. Quasi sempre costretti sulla difensiva, abituati a raccogliere il pallone nella propria rete, ma sempre pronti a dare di nuovo il calcio di inizio. Giocano ogni partita come se fosse la prima e anche l’ultima.

Secondo alcune anime pie questi bambini/ragazzini grazie alla loro sofferenza ottengono senz’altro la vita eterna in paradiso. Si tratta di una posizione in cui non mi ci ritrovo per niente. La loro sofferenza non li salva per nulla, semplicemente non permette loro di vivere in pienezza la vita che gli è stata donata e che l’impoverimento che subiscono sta deturpando. A questi bambini dobbiamo guardare non vedendo il futuro paradiso che vivranno, ma la pienezza di vita che gli è negata e che deve essere reintegrata. E di questa reintegrazione dobbiamo farci carico. La compassione di un cristiano non si esaurisce nell’auspicare una vita futura in paradiso, ma nel farsi carico della vita presente di chi soffre ingiustamente. Non credo vi sia nulla di etico e di empatico nell’incontrare questi bimbi e augurare loro che vivranno la vita eterna in paradiso. Questa non è consolazione, ma autogiustificazione di chi, potendo, non fa nulla. C’è un avvicinarci con responsabilità e compassione a loro a cui siamo chiamati, che non può essere sostituito dalla promessa di un paradiso futuro. Il paradiso che verrà non ci esime dalle nostre responsabilità e dalla compassione che siamo chiamati a vincere.

Trovo molta difficoltà in me stesso, ma anche in altri vicino a me, a personalizzare la mia relazione con ognuno di questi bambini. Sento la tentazione di fuggire alla tensione esistenziale che si crea incontrandoli. Faccio fatica a compromettere la mia vita con la loro, a coinvolgermi e farmi cassa di risonanza del loro dolore e della loro fatica. Faccio fatica a sentirli nella loro unicità preziosissima e precaria. Ma questo, lo credo fortemente, è il modo che è dato a me di vivere in una forma eticamente responsabile, il modo in cui io posso vivere una profonda e realizzata vita spirituale. Realizzare il loro bene è lo scopo e il fine che io devo perseguire. La mia indifferenza sarebbe una dichiarazione di complicità con il male che pesa su di loro. Costruire un’alleanza con loro non solo mira a mobilitare il loro anelito di vita, la loro voglia di esprimersi al meglio, ma anche a vivificare le mie energie, a umanizzarle, a rendermi la miglior versione di me stesso.